[ENGLISH VERSION BELOW]
Intervista a PAUL DARK, componente del Paul Chain Violet Theatre realizzata da Daniele Manno.
Si ringrazia lo stesso Paul Dark per la gentile concessione delle fotografie, provenienti dal suo archivio personale.
Come nacque la tua passione per la musica?
Fin da piccolo ascoltavo i dischi di mio padre, appassionato di hi-fi: tanta musica, dalla classica a quella d’autore.
E i tuoi primi progetti musicali? Quali sono stati?
Ne ho avuti tanti, ma la serietà è arrivata con gli A.V. Gerenia, da me creati nel 1987 come chitarrista e compositore.
Il primo in ordine cronologico di cui ho notizia è proprio il Paul Chain Violet Theatre. Come conoscesti Paul e compagni e come entrasti nel progetto?
Ho conosciuto Paul Chain nei primi anni ‘80. Ci siamo frequentati nella stessa compagnia, che condivideva le stesse passioni musicali. All’epoca c’erano le compagnie da muretto e nessuno suonava, erano tutti dediti alle ragazze e alla macchina da lavare. Cose che a uno come me, assetato di conoscenza, sinceramente non bastavano.
Prima del loro scioglimento nel 1984, avrai sicuramente assistito a qualche concerto dei Death SS. Cosa ricordi, cosa ne pensavi e come venivano accolti dalla realtà dell'epoca?
Certo che li ho ascoltati dal vivo e, credimi, anche in sala prove erano esplosivi, molto affascinanti all’epoca. Gli appassionati ne erano molto presi. Poi, in seguito, ho fatto le foto del loro ultimo concerto, quello del 1987 di cui ci sono pure i filmati.
Credo proprio che tu sia stato l'unico, in tutta la discografia del P.C.V.T., a condividere crediti come compositore: per la precisione è il caso della struggente “Way to Pain”. Immagino che un artista vulcanico, determinato e accentratore come Paul Chain difficilmente lasciasse spazio a troppi contributi "estranei". Ovviamente è escluso da questo discorso Maurizio Cucchiarini dei Run After To, in quanto “Occultism”, su “Detaching from Satan”, era sostanzialmente una cover...
Sì, è vero: Paul ha un forte egocentrismo, ma sa riconoscere ed apprezzare le cose che hanno qualcosa di valido. Abbiamo sempre avuto una buona intesa musicale. Sappi che, nei primi tempi in cui ci siamo conosciuti, io ero piuttosto squattrinato, ma lui lavorava e mi prestò un quattro piste nuovo di zecca per registrare il mio primo demo. Poi mi allontanai per ovvi interessi personali, avevo tanto da dire e non volevo essere limitato nel basso; ho sempre studiato la chitarra e poi Galley lo suonava certo meglio di me [detto con un sorriso – nota di Daniele].
“Occultism” gli piacque subito appena la sentì e se ne appropriò [anche questo detto sorridendo – n.d.D.]
Il nome del gruppo suggeriva forse qualcosa sulla particolarità dei vostri concerti... Una sorta di mistico teatro musicale?
Sì, mi piaceva molto l’idea (molto anni ’70) di avere due distinte formazioni che si dividevano il palco a momenti alterni, ed a volte si mischiava il tutto.
Ricordi quale fu il tuo primo concerto con questo gruppo?
Sinceramente mi sfugge.
E il più memorabile?
Diversi. Ma non ricordo precisamente i posti in cui si svolsero. Uno, mi sembra, a Verona, ma dove di preciso non ricordo. Mi ricordo invece un concerto che tenemmo per raccogliere soldi per Paul Chain e la moglie, dopo che ebbero l’incidente in auto proprio di rientro da un concerto. Io suonavo la chitarra al suo posto: la suonai a modo mio e fu una bella serata. Ci divertimmo e ne uscì qualcosa di diverso, ma non vedemmo una lira ovviamente [detto in tono solare – n.d.D.].
Come definiresti l'esperienza del Paul Chain Violet Theatre?
Molto interessante, intensa, colorata e profonda.
Curioso che, nel frattempo, due ex-Death SS - vale a dire Franco Caforio (Thomas Chaste “secondo") e Gabriele Tommasini ("l'altro" Danny Hughes) – avessero fondato un gruppo dal nome non dissimile: i Violet Eves! Aveste rapporti di qualche tipo, con loro?
No.
Avresti annedoti particolari da raccontarci riguardo a quel periodo?
Madosca! Ma ci vorrebbe una giornata intera solo per quelli!
Un esempio?... Giusto uno… Se puoi.
[Dopo averci pensato a fondo… – n.d.D.]
Primi anni ’80 (non ricordo bene se ‘82 oppure ’83), tarda primavera. Aria dolce e intensa,un piacere stare all’aperto anche a tarda notte; Chain voleva liberarsi del passato e riportare in un cimitero di un paesino dell’entroterra alcuni teschi che utilizzava nei concerti [quelli dei Death SS – n.d.D.].
Non è buona cosa usare parti umane come facevano gli antichi aztechi, le energie ne possono risentire e anche molto.
Per cui a tarda notte, all’incirca verso le 2, prendo la macchina di mio padre, una 127 color polenta, un mito di auto che con un pieno di metano da 5 mila lire percorreva 250 kilometri.
Carichiamo nei sedili posteriori una vecchia cassa acustica dove, all’interno, erano contenuti i tre antenati, chiamiamoli così.
Muovere la cassa non era piacevole, perché al suo interno gli antenati rotolavano e, urtandosi tra loro, emettevano un toc toc tipo campanaccio in legno.
Percorriamo la strada provinciale per circa 10 minuti, imbocchiamo la strada abbastanza tortuosa in salita, i fari dell’auto proiettavano nelle ripide curve tetre ombre di alberi e il toc toc, nelle curve, era sempre macabro e presente.
Arriviamo, dopo circa 5 minuti, all’ingresso del cimitero. I fari ne illuminavano la strada in salita che ai lati era costeggiata da alti e vecchi cipressi.
Per fortuna la luce della luna ci aiutava nel compito; scendiamo dall’auto, per muovere il diffusore (abbastanza grande) urto contro il clacson e parte il roboante suono. Chain, quasi tra il serio e il ridendo, mi dice: “Koppa che cazzo fai!!!”, ed io: “Cazzo, come se lo facessi apposta! Non si gira qui dentro...”
Ci avviamo su per il sentiero: io a destra, lui a sinistra della cassa. Entriamo nel cimitero, reso ancora più suggestivo alla luce della torcia elettrica.
Apriamo la cigolante porta della chiesa: al centro del pavimento c’era la botola dell’ossario.
La apriamo e, senza tanti preamboli, con una leggera spinta Chain fa cadere la cassa dentro (io lo guardo perplesso) e oltre al toc toc degli antenati si sente il rumore dei femori, sul fondo.
Usciamo, chiudiamo la porta sgangherata, della chiesa e ci avviamo alla macchina.
Facciamo la strada a ritroso verso casa, nel silenzio più profondo, sotto la luce della luna che dipingeva d’argento la campagna attorno; la leggerezza di aver ridato pace ad antiche ombre del passato ci pervadeva.
Ragazzi... - emozioni di un passato che non tornerà mai più.
Un ricordo di Aldo Polverari.
Aldo, grande musicista, ha scritto originali e bellissimi brani. Assieme abbiamo registrato tre nastri completamente improvvisati nell’87, molto feeling dentro.
Un ricordo di Sanctis Ghoram.
Piero era grande nella sua semplicità, era un po’ come uno zio per me, con i suoi vent’anni di più, con quel modo particolare di cantare. Veramente unico. Peccato ci abbia lasciato in questo modo.
Un ricordo di Giuseppe Cardone.
Giuseppe era geniale, parlava poco, io non ho avuto modo di conoscerlo bene, perché morì veramente poco tempo dopo che lo ebbi conosciuto.
Penso che al concerto di Genova (1986), a giudicare dalla setlist, il bassista fossi tu. Confermi?
Sai che non me lo ricordo?
Passando alla tua evoluzione come musicista, da solista hai pubblicato, a metà anni '80, l'oggi introvabile "Osmosi". In esso ti avvalesti del contributo degli amici Claud Galley e Alex Renzoni, dedicando il tutto al mitico Paul Chain. Che ricordi hai di quell’esperienza?
Come dicevo prima, mi piacque come esperienza, perché finalmente potevo dilettarmi con nastri e microfoni (di Paul Chain, che me li prestò). Un brano che amo tuttora è “The Rolling Hill”, e ancora oggi mi sento orgoglioso a pensare che a 21 anni creai questo suono. Poi con Claud, oltre a vederci, abbiamo fatto anche una collaborazione non molto tempo fa, che spero possa uscire a breve. Alex mi piacerebbe cantasse il brano di cui parlavo prima.
Facesti concerti anche da solista?
Sì, ma non molti.
Va detto che con Paul Chain collaborasti anche in seguito, in particolare su “Alkahest”, ancora una volta co-scrivendo un brano insolitamente delicato: “Lake Without Water”. Che ricordi hai di quel quel disco, indubbiamente di storica importanza per l'underground italiano?
Molto interessante come seduta di registrazione. Io ero un po’ di ritaglio dalla vita, mio figlio era piccolo…. conoscere Lee Dorian era una novità piacevole per me, poi sapere che era venuto appositamente per collaborare con Paul… Ricordo che quell’arpeggio così storto lo composi al momento, brano secondo me molto riuscito e particolare.
Musicista. Ma anche fotografo, pure per le band. Parlaci un po' di questa tua passione…
Che devo dire? Ho impostato tutta la mia vita su queste cose e mi hanno salvato, nel vero senso della parola. Che senso ha vivere solo per fare denaro, fare carriera? Per cui quello che faccio vien fuori così, senza problemi, mi sento a mio agio nel mondo della creatività. Il mondo degli uomini ancora mi turba e molto, oggi più che mai. La fotografia l’ho ereditata da mio padre: ho imparato da lui a sviluppare pellicole e fotografie, il mondo quando era analogico era più umano e intenso. Poi fotografare i gruppi venne da sé: mi piaceva e loro me lo chiedevano.
Veniamo allora a quello che forse è stato il tuo progetto più importante, vale a dire gli A.V. Gerenia.
Non la faccio molto lunga: il gruppo lo fondai nell’87. Registrammo inizialmente un demo live e due brani, estratti da questo e registrati poi in studio, andarono sul 45 giri prodotto da Claudio Sorge (“The Hill” e “When Around It’s Breakdown”), poi [seguirono] altre registrazioni e il CD “Where Do You Come From?…”. Nell’arco degli anni poi si alternarono alla batteria anche Andrea “Nembo” Bona, Eric Lumen e Thomas Hand Chaste, con ottime performance live.
L’origine e il significato del nome A.V. Gerenia mi risultano oscuri...
Un sogno. Sognai una dama vestita di bianco, vicino ad un pozzo. In mezzo ad un bosco. Lì, con la mano appoggiata sul bordo del pozzo. La A e la V stanno per il suo nome, mentre Gerenia [è] il suo cognome. La dama dal profumo di geranio vicino al pozzo simbolo della creatività del mistero dell'acqua.
Nel 2012 hai partecipato anche all'album “10 anni dopo” di Marco Sanchioni.
Sì, come bassista, ma più come amico realmente, perché non sono molto preciso come bassista [sempre sorridendo]. Non mi si addice la pennellata precisa, per questo mi trovo più a mio agio con la chitarra. Comunque mi ha fatto piacere collaborare a quel lavoro, che trovo molto gradevole.
A quali ascolti attribuisci maggiore importanza per la tua formazione come musicista?
A volte ci penso. Credo che la musica dei dischi di mio padre mi abbia profondamente influenzato, come alcune ritmiche dei dischi anni ‘60 in stile brasiliano, oppure le melodie di Debussy, Ravel, Paganini, Segovia ed ovviamente Led Zeppelin, Who, Pink Floyd e poi, ovviamente, una forte influenza è stata proprio quella di Paul Chain, se non altro per [quel suo] osare su tutto, era veramente un fenomeno per l’epoca, nulla aveva da invidiare ai grandi nomi del mondo musicale estero; poi hard rock in genere. Mi piace moltissimo la musica etnica: greca, indiana, marocchina, ecc. ecc.
Ti va di dirmi il significato del tuo soprannome "Koppa"?
Certo! Fa un po’ ridere: quando ero ragazzino avevo i capelli lunghi, poi d’un tratto cortissimi, ed essendo alto e magro mi ritrovo con la coppa scoperta. Gli amichetti dicono subito GUARDA COPPA! Ecco lì!
Progetti futuri?
Ah che dirti?! Le idee non mancano, ma il senso di realizzarle non lo trovo, comunque sul mio canale YouTube ogni tanto pubblico qualcosa [il canale si chiama “gereniax” – n.d.D.] . Con Thomas Hand Chaste stiamo cercando di fare qualcosa assieme e anche con mio nipote, che vive a Londra.
In conclusione, vorrei chiederti un parere su cosa abbia rappresentato, secondo te, l'ancora fin troppo sconosciuta scena underground pesarese dagli anni ottanta e, perché no, novanta. Ho l'impressione che vi fosse tanto fermento all'epoca, tanti musicisti, grande spontaneità e libertà creativa e tanta, tanta voglia di collaborare e aiutarsi.
Era un altro mondo. Sì, a Pesaro c’era molto fermento e alcuni hanno lasciato il segno più degli altri. L’unica cosa che penso ora è: quel mondo di giovani, magari in alcuni casi con problemi di droga, ma con la voglia di esprimersi, è stato soppiantato da un mondo di altri giovani che ormai si stanno integrando ad un progetto transumano che non può che lasciarmi senza fiato e molto molto preoccupato. Mi sa che a noi cinquantenni tocca tirare fuori di nuovo quella voglia di vivere e di fare analogico, perché l’analogico emoziona sempre, perché noi siamo analogici, non digitali come ci vogliono fare diventare. Quel mondo lo abbiamo perso? Sì! Anche se è su un supporto audio.
- DANIELE MANNO -
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[ENGLISH VERSION]
Interview to PAUL DARK, member of Paul Chain Violet Theatre realised by Daniele Manno.
Special thanks to Paul Dark for all photos, coming from his personal archive.
Where did your passion for music spring from?
Since I was a child, I kept listening to my father’s records, who had a keen interest in hi-fi: a lot of music, from classical to the songwriters.
And what about your first musical projects?
There were many, but professionalism came to be with A.V. Gerenia, created by me in 1987 as a guitarist and composer.
The first one, in chronological order, of which I am aware of is precisely Paul Chain Violet Theatre. How did you come to meet Paul and the others and how did it happen that you joined the project then?
I first met Paul Chain in the early ‘80s. We hung out with the same company, sharing the same musical interests. At the time there were what I like to call the “low wall companies” where nobody played, as they were all busy thinking about chicks and washing the car. Those things were not enough for someone hungry for knowledge as I am.
Before their breakup in 1984, you must have certainly witnessed some Death SS concerts. What do you remember, what did you think at the time and how did people perceive them back then?
Of course, I saw them live and believe me, even in the rehearsal room they were explosive; they were really fascinating at the time. Fans of the genre were very fond of them. Later I also shot photos of their last show in 1987, of which video footage exists, too.
I believe you were the only one, in the whole P.C.V.T. discography, to share credits as a composer: I’m speaking of the moving “Way to Pain”. I guess an exuberant, determined, and centralizing personality as that of Paul Chain could hardly allow too many “external” contributions. I’m obviously not including Maurizio Cucchiarini from Run After To, being that “Occultism”, on “Detaching from Satan” was practically a cover song…
Yes, it’s true, besides his egocentrism, Paul is able to recognize and appreciate things that have some sort of value. We always had nice musical chemistry. You need to know that in our earliest meetings I was almost broke, while he had a job and so he lent me a brand new four-track to help me produce my first demo. Later I stepped away from him due to obvious personal reason, as I felt I had much more to give artistically speaking, and I didn’t want to be limited as a mere bassist; I had always practiced the guitar and then Galley certainly played bass much better than me [Paul Dark smiles].
He [Paul Chain] immediately liked “Occultism”, as soon as he heard it, therefore he appropriated it. [Paul Dark also says this in a playful tone]
Would you like to share some anecdotes about that period?
Good Gosh! It would take an entire day just for that!
An example?… Just one, please… If you can...
[Thinking it over… – n.d.D.]
Early ‘80s (I’m not sure if it was ’82 or ’83), late spring. The air was sweet and intense, it was a pleasure to stay out, even late at night; Chain wanted to break free of the past and bring some skulls he used in concerts [those of Death SS – n.d.D.] back to a graveyard in a small hinterland town.
It is not good using human parts as the ancient Aztecs did: energies might be affected and much, too.
So, late at night, at about 2 p.m., I took my father’s car, a polenta-colored 127, a legendary car which was able to travel 250 kilometers if one got it all gassed-up.
We put an old sound box in the backseat, inside of which there were three ancestors, let’s call them that.
Moving the box was not pleasing at all, because inside the ancestors kept rolling and, bumping against each other, they emitted a knock-knock such as that of a wooden bell.
We traveled through the provincial road for about 10 minutes, then we turned into a road that was quite tortuous uphill, the car headlights projected the grim shadows of the trees on the steer bends and that knock-knock was always gruesomely present.
After five minutes, we arrived at the cemetery entrance. The headlights illuminated the uphill street, bordered with tall, old cypresses on both sides.
Fortunately, the moonlight helped us in our task; we got off the car, and while trying to move the box (which was quite heavy) I crashed into the horn, and thus the resounding sound was heard. Chain, almost as if between the serious and the facetious, said: “Koppa [Paul Dark’s friends always call him that – Daniele’s note], what the fuck are you doing?!”, and I: “Shit, as I were doing it on purpose! We shouldn’t be around here…”
Now we head towards the path: me on the right, he at the left of the box. We get inside the cemetery, made even more suggestive by the light of the electric torch.
We open the creaking church door: at the center of the floor is the trapdoor to the ossuary.
We open it and, without preamble, with a gentle push Chain makes the box fall inside (while I give him a perplexed glance); then, other than the ancestors’ knock-knock, the noise of the femurs is heard.
Then we get out, closing the rickety door and heading back to car.
Then we ran across the path back home, in the deepest silence under the moonlight, which tinged the country around with silver; the levity of having restored peace to the ancient shadows of the past pervaded us.
We were kids… - emotions of a past which will never return.
What about the live shows? The project’s name might tell something about the peculiarity of them. A sort of mystical musical theatre?
Yeah, I really liked the idea (very ‘70s style, really) of having two distinct ensembles take turns on the stage, and how sometimes everything mingled.
Do you remember your first concert with this band?
Frankly, I don’t.
What about the most memorable?
There were many, but I don’t remember where they took place exactly. I think one was in Verona, but I don’t remember the exact place. Conversely, I remember a concert we held to raise funds for Paul and his wife, after they had a car accident while coming back from a concert. I played the guitar in his place: I did it my way and it ended up being a good night. It was fun and it turned out to be something different than usual, but of course we saw no money at all [Paul Dark giggles].
So, how would you define your experience with Paul Chain’s Violet Theatre?
Very interesting, intense, colorful, and deep.
In the meantime, curiously, two other former Death SS members – I mean Franco Caforio (Thomas Chaste “the second”) and Gabriele Tommasini (“the other” Danny Hughes) – had already given life to a band with a similar name: Violet Eves! Was there any kind of connection between the two bands?
No.
A memory of Aldo Polverari.
Aldo, a great musician, wrote very original and beautiful songs. Together we recorded three completely improvised tapes in 1987, with much feeling inside.
A memory of Sanctis Ghoram.
Piero [Piero Gori, real name of Sanctis Ghoram – Daniele’s note] was great in his simplicity; he was a bit like an uncle for me, being 20 years older, and with that very peculiar way of singing. Unique. Really. Too bad he departed that way.
A memory of Giuseppe Cardone.
Giuseppe was a genius. He hardly spoke; I didn’t manage to know him well, because he died very little time after I had first met him.
Judging from the setlist of the Genoa 1986 concert, you must have been the one on the bass. Can you confirm that?
You know? I don’t remember.
Now, speaking of your evolution as a musician, in the mid-’80s you released the now impossible to find “Osmosi”, as a solo work. You also took advantage of contributions from friends Claud Galley and Alex Renzoni, and the whole work was dedicated to the mythical Paul Chain. Would you share some memories of that experience?
As I was saying, I enjoyed that experience because, finally, I could have fun with tapes and microphones (which belonged to Paul Chain, who lent them to me). A piece I still love today is “The Rolling Hill”, and I’m still proud thinking I was only 21 when I created that sound. Then, with Claud, other than meeting each other, we also did a collaboration not much time ago, which I hope might be released soon. I’d also like Alex to sing on that piece I’ve mentioned before.
It must be noted that your collaboration with Paul Chain went on, in particular, on “Alkahest”, where once again you co-wrote an unusually delicate piece: “Lake Without Water”. What are your memories of that period and of that record, which undoubtedly represented a sort of historical landmark for Italian underground music?
That recording session was very interesting. I was having a bit of a busy life, my son was a little child… meeting Lee Dorrian was a welcome surprise for me, also knowing he had come expressly to work with Paul…. I remember I composed that crooked arpeggio on the spot, I find that piece very well-made and peculiar.
Did you also perform live as a soloist?
Yes, but not many times.
Musician, but also photographer. Even for the bands. Tell us a bit about this passion of yours.
What shall I say? I based my whole life on these things, and they saved me, in the literal sense of the word. What’s the point in living just to make money, or having a career? So, the things I do come out like that, no problem, I feel comfortable in the world of creativity. Men’s world disturbs me, today more than ever. I inherited my interest in photography from my father: he taught me how to get the film developed; when the world was analogical, it was more human and intense. Anyway, being a photographer for the bands came by itself: I enjoyed it, and they asked me to do it.
Then let’s talk about perhaps your most important project, that is A.V. Gerenia.
I’m not going to be too wordy: I formed the band in 1987, and initially we recorded a live demo, then recording in the studio two songs extracted from that, which ended up on the 45 produced by Claudio Sorge (“The Hill” and “When Around It’s Breakdown”), then other recordings followed and the CD “Where Do You Come From?…”. Over two years, Andrea “Nembo” Bona, Eric Lumen and Thomas Hand Chaste alternated on the drums, providing excellent live performances.
The origin and meaning of the name A.V. Gerenia seem a bit obscure...
A dream. I dreamed about a lady dressed in white, near to a pit. In the middle of a forest. She was there, her hand placed on the side of the pit. The A and the V stand for her name, while Gerenia would be her surname. The lady with the geranium scent was near the pit, as a symbol of creativity, of the mystery of water.
In 2012 you took part to an album by Marco Sanchioni, “10 anni dopo”. What about that?
Yeah, as a bassist, but more as a friend, really, because I’m not very precise as a bassist [giggling]. Accurate picking does not suit me; therefore, I’m more at ease playing the guitar. However, I enjoyed contributing to that work, which I find pretty refreshing.
What music inspired you as a musician?
Sometimes I think about it. I believe the music from my father’s record collection has had a deep influence on me, as did some rhythms found in Brazilian-style records from the ‘60s, or the melodies of Debussy, Ravel, Paganini, Segovia and obviously Led Zeppelin, Who, Pink Floyd and then, obviously, a big influence was that of Paul Chain, at least for how daring he was, he was a real phenomenon for his time, and he lacked nothing compared to the big names of the musical world from abroad; then, I think, hard rock in general [had an influence on me]. I like ethnic music a lot: Greek, Indian, Moroccan, etc...
Would you like to tell me the meaning of your nickname, “Koppa”?
Of course! It’s a bit funny: when I was a kid I kept my hair long, then I suddenly cut them very, very short, and being that I was tall and slim I now found myself with the “coppa” [vernacular term for "nape"] uncovered. My friends immediately said “LOOK! COPPA!”. That’s it!
What about the future?
Uh, what can I say?! I don’t lack the ideas, but I see no point in making anything out of them, however I sometimes publish something on my YouTube channel [the channel is called “gereniax” – Daniele’s note]. I and Thomas and Chaste are trying to do something together, also with my nephew, who lives in London.
In the end, I’d like to know your opinion about the obscure underground musical scene of Pesaro in the ‘80’s and, why not, ‘90s. What did it stand for? I keep having the impression that all was in great ferment, that there were many musicians, that there was much spontaneity and creative freedom, and much willingness to collaborate and help each other.
That world was completely different from the one we live in today. Yes, Pesaro was in great ferment and some [people/bands] left their mark more than others. There’s one thing I think today: that world, made of young people, which sometimes even had drug issues, but were also willing to express themselves, has been replaced by a world of other young people who are integrating themselves in a transhuman project which is leaving me without breath and really really worried. I guess we 50-year-old people must bring out that will to live and “do it analogical” once again, because we are analogical, not digital as they want us all to become. Have we lost that world? Yes! Although it’s on an audio support.
- DANIELE MANNO -