Se fossero inglesi o americani, i CARONTE inciderebbero sicuramente per la Rise Above Records, oppure (nei tempi d’oro) per le americane Man’s Ruin o Meterocity.
Questo gruppo di Parma arriva circa dieci anni dopo il periodo più florido del Doom/Stoner Rock, ma pare essere nato proprio in quegli anni (fine ‘90/primi ‘2000), e comunque deve essere cresciuto a pane e quelle sonorità.
Non si spiegherebbe altrimenti la proposta e la carica del quartetto, fortunatamente notato dalla tedesca Van Records dopo l’ottimo esordio uscito qualche anno fa per l’italiana Lo Fi Creatures.
L’iniziale “Maa-Kher’s rebirth” sembra essere stata scritta dentro una piramide egizia; la voce possente (echi di certe tonalità di Glenn Danzig a volte aleggiano nel disco) di Dorian Bones canta su un doom metal sulfureo dove su alcuni ritmi tribali si appoggiano in sottofondo voci rituali che paiono declamare riti e formule magiche.
Sulla stessa lunghezza d’onda si sviluppano il doom psichedelico dell’ottima “Temple of eagles” e la conclusiva “Left hand vodoo”, mentre invece sul lato più vicino allo stoner “Wanka tanka rider” ha il classico fascino e sapore delle cavalcate fra la sabbia e le palme, e “Black mandala” puzza di Kyuss in preda ad sogno in nero.
In passato ho letto alcune recensioni su questo gruppo, e al di là dei tanti nomi che si leggono come punto di riferimento e che comunque, in parte, possono essere indicativi (Electric Wizard su tutti) i CARONTE al sottoscritto appaiono come la reincarnazione dei mitici Goatsnake, il gruppo che meglio di tutti rappresentò l’incontro e la fusione fra la pesantezza e lentezza del doom metal e l’impatto stordente e gli umori desertici dello stoner rock.
Traete le vostre conclusioni.
- MARCO CAVALLINI -