Gruppo polacco che, spero, sembra destinato ad un grande futuro (il prossimo
full lenght usicrà per la nostrana Avantgarde Music).
Lo spero perché questo è un disco dannatamente affascinante, un album che tira
schiaffi e accarezza al tempo stesso, fondendo le due emozioni in maniera
incredibile.
Il leader Michal Sliwa è cresciuto ascoltando prima i Godflesh e poi i loro“figli” Jesu, questo è inutile nasconderlo; la loro influenza, in certe
soluzioni (specialmente quelle più heavy) è davvero evidente.
Ma dalla sua, Michal mostra una sensibilità e una visione personale nel
rileggere la lezione di Justin Broadrik; e la sua è una sensibilità
malinconica.
Un artista, il nostro, abilissimo nel creare composizioni dove le porzioni
sospese nel vuoto hanno l’effetto di rendere ancora più dense le partii heavy e
ne fanno apprezzare appieno l’impatto.
Nelle lunghe “From infinity to infinity”, “Third time”, “Or” (forse la
migliore di tutte) e “Ape” i riffs sono così dilatati che sovente richiamano il
grigio ipnotismo dei finlandesi Dolorian. “Pony” e la nerissima “Open” hanno dalla loro un passo pachidermico ed un mood
spaziale che mi ricorda i migliori UfoMammut.
Emotivamente parlando, evitiamo paragoni con gruppi come Pelican o Isis (e la
scena postdoom rock americana in generale); Echoes Of Yul trasmettono un
malessere di fondo ed ammantano il loro sound in un feeling nero che la scena
sopra citata non può nemmeno lontanamente avvicinare.
Lasciatevi quindi avvolgere e stordire nel loro nero velluto di malinconia.
Ottimi.
- MARCO CAVALLINI -