Con questo nuovo album (il decimo della loro carriera) gli Opeth ritentano in
qualche modo l’esperimento effettuato col grande “Damnation”, ovvero comporre
un album dimenticando il lato estremo della loro musica, concentrandosi
esclusivamente sul lato soft che comunque da anni, in certe situazioni,
accompagna le loro sonorità.
Ne viene fuori un disco completamente immerso nei seventies (per atmosfere e
sonorità), che se all’inizio affascina, e molto, alla fine annoia, e non poco.
Le iniziali (dopo un breve intro strumentale) “The devil’s orchard” e “I feel
the dark” sono due gioellini di progressive rock ombroso e malinconico,
enfatizzati dalla voce pulita di un Mikael Akerfeldt ispirato come non mai e
dal pazzesco lavoro di Per Wiberg (tastiere, synth, mellotron, hammond e altro
ancora).
Il problema, a mio parere, è che in questo genere musicale, o si azzeccano
dieci brani su dieci, oppure la noia prende il sopravvento su qualsiasi altra
emozione e sensazione.
Gli Opeth (come moltissimi altri, intendiamoci) non ce la fanno, e dalla
quarta canzone in poi il disco diventa lento, stanco, monotono e non regala più
i sussulti dati dalle prime due songs.
Sfido i fans del gruppo, anche i più incalliti, a non sbadigliare almeno una
volta nell’ascolto di questo disco, perfetto dal punto di vista esecutivo e
tecnico, ma privo di quell’energia emotiva che ogni album, per essere definito
capolavoro, dovrebbe dare.
Pazienza; chissà che un futuro ritorno a sonorità più hard non ce li
restituisca più ispirati di come lo sono adesso.
- MARCO CAVALLINI -